Giovanni Motta
Giovanni Motta e` nato a Verona nel 1971.
L’artista, figlio d’arte, si esprime attraverso pittura e scultura. I suoi dipinti sono il frutto di un’elaborata e complessa tecnica pittorica dove lo studio del colore e della forma sono protagonisti indiscussi.
Nella poetica di Motta, dove spesso le tematiche affrontate sono quelle della memoria e del ricordo, mezzo pittorico e scultura non entrano in contraddizione, ma anzi, il dato oggettivo e la percezione della realta`, rappresentati dalla pittura tendono ad amplificare l’idea di fantasia soggettiva che sottende la scultura, secondo una logica di alterazione e trasformazione che intercorre nell’utilizzo congiunto di entrambi i mezzi.
Le sue opere, dal forte impatto visivo e al limite del fantastico, partono dalla ricerca e dallo sviluppo del ricordo di momenti legati all’infanzia. Il suo e` un alfabeto contemporaneo contaminato dalla cultura nipponica, dallo stile cartoon e da cartelle colori vivaci rigorosamente impiegate a tinte piatte.
INSIDE NOSTALGIA
di Ivan Quaroni
Secoli fa la nostalgia era considerata una malattia. Ne soffrivano i mercenari svizzeri stanziati in Europa durante il Seicento, che esprimevano la propria malinconia per la terra d’origine con una melodia – il Ranz des vaches cantato dai mandriani sulle Alpi – talmente dolce e straziante da essere proibita, pena la morte. Il termine appare per la prima volta proprio nel XVII secolo ad opera di un giovane medico, Johannes Hofer, che nella sua tesi di laurea, intitolata Dissertatio medica de nostalgia, individuava le cause fisiche e materiali di questo doloroso desiderio di tornare in patria non solo nel cambiamento di abitudini, aria, cibo, usi e costumi, ma anche in una precisa sintomatologia: l’immaginazione turbata, la tristezza, il pianto e addirittura la febbre. Questo neologismo, derivato dalla crasi delle parole greche Nóstos (ritorno) e Álgos (sofferenza), definisce il tormento provocato da un inappagato desiderio di ritorno ai luoghi natii. E, in tal senso, l’Odissea è il perfetto poema epico della nostalgia, il meraviglioso racconto dell’accidentato viaggio di Ulisse verso Itaca.
Progressivamente, nel corso del tempo, la nozione di nostalgia è cambiata e alla sua accezione geografica e spaziale se ne sono aggiunte di nuove: la nostalgia del tempo perduto di proustiana memoria e quella per una persona assente o lontana o perfino per un’immagine o un oggetto. L’originaria malattia dei mercenari svizzeri è diventata uno stato d’animo, una condizione esistenziale che è parte del nostro immaginario culturale e sociale. Esistono, però, due tipi di nostalgia secondo l’antropologo Vito Teti, una patologica e una creativa. La prima, di stampo regressivo, vorrebbe tornare al passato e alla tradizione, cristallizzando il tempo in un algido rigor mortis; la seconda, di tipo critico e riflessivo, desidera recuperare tutto ciò che è utile - percorsi, esperienze, deviazioni - per rigenerare il presente e liberare un nuovo potenziale sovversivo.
È di questo tipo il sentimento che muove, come un impulso rigenerativo, tutta la ricerca estetica di Giovanni Motta e a cui, non a caso, l’artista dedica un lavoro installativo – la grande insegna al neon con la scritta “Nostalgia” - che è un richiamo alle tanto amate atmosfere degli anni Ottanta (quelle, per intenderci, prepotentemente tornate in auge grazie alla serie Stranger Things), ma anche un pungolo all’analisi critica di un sentimento che, attraverso i film, la musica, la moda, è diventato oggi condiviso e formalizzato, e dunque, inevitabilmente, deteriore.
Il confine tra una nostalgia positiva e una negativa è, infatti, quanto mai labile, pericolosamente in bilico tra un quiescente ripiegamento verso tutto ciò che è già noto e un vigile desiderio di recuperare le energie inespresse e i possibili sviluppi dei sentieri della Storia. Ma per Giovanni Motta la questione della nostalgia è solo in senso lato una faccenda che impatta sul tessuto sociale. Piuttosto, per usare le parole dello scrittore Roberto Cotroneo, “è una forma per preservare l’identità psichica, tenerla unita, come una fascia che impedisce al proprio io di disgregarsi.”
Le sue incursioni nell’immaginario infantile dei manga e dei cartoni animati servono ad agganciare sensazioni, stati d’animo e illuminazioni che innescano un diverso modo d’interpretare e vivere la realtà odierna. Con le sculture e i quadri popolati di eroi bambini e di prodigiosi mostriciattoli che, insieme ai colori forti, amplificano l’intensità emozionale delle sue storie, Motta non racconta solo la nostalgia di un decennio che è rimasto impresso, come un tatuaggio dell’anima, nella generazione X, ma indaga soprattutto il tempo magmatico ed incandescente della propria formazione emotiva e spirituale (e, per estensione, della formazione di tutti, inclusi quelli che oggi chiamiamo Millennials e che stanno attraversando, forse inconsapevoli, le tempestose acque dell’infanzia e dell’adolescenza).
Il suo sforzo individuale di recuperare la purezza, il vigore e la terribile vemenza delle epifanie vissute nella primavera della vita è a beneficio di tutti. Non solo perché indica una via nuova alla rilettura del passato che scarta il rimpianto esistenziale e ogni facile ripiegamento retrospettivo, ma perché dimostra, con la persuasione e la potenza delle immagini, che la magia, il coraggio, lo stupore e l’eroismo, a volte folle, dei bambini sono risorse inespresse dell’adulto di oggi. Al diavolo, dunque, la sindrome di Peter Pan tanto sbandierata dalla sociologia odierna! Se restare bambini significa tornare ad essere eroi (di noi stessi) con quello slancio pop e vitalistico di cui parla Franco Bolelli, cioè Con il cuore e con le palle (Garzanti, 2005), allora ne vale la pena! Proprio lui, l’eretico filosofo nietzschiano contemporaneo, scrive, infatti, che “l’essenza stessa dell’evoluzione è e non può che essere adolescenziale, quando avanza con i suoi nuovi passi, quando si lascia sospingere e attraversare dall’innovazione e dall’energia.”
Per questo Giovanni Motta fa coincidere sul piano estetico e linguistico l’epos dei cartoon e degli anime giapponesi con il suo personale bagaglio di esperienze e memorie puberali. Su di lui – come su molti di noi – i cartoni hanno avuto lo stesso impatto delle favole e dei racconti mitologici sui nostri avi. Altrettanto epiche e paradossali, magiche e inverosimili, sono le storie visive della nostra formazione, dipanatesi nei lunghi pomeriggi passati davanti al tubo catodico, dove abbiamo costruito, volenti o nolenti, i fondamenti della nostra weltanschauung e gettato le basi della nostra conoscenza della vita e del mondo.
Nell’immaginazione plastica e pittorica di Motta il vissuto reale s’intreccia e si confonde con le memorie visive dei cartoni animati, grazie a una grammatica che sembra allontanarsi sempre di più dai codici del superflat nipponico per trovare una propria originale formula espressiva, meno freddamente rifinita e più calda e pastosa. Come ai suoi esordi, Motta mescola ancora la pratica artigianale della pittura con le inserzioni serigrafiche, contamina l’arte di plasmare le forme con le più recenti tecniche di stampa tridimensionale, quasi infiammato da una furia sperimentale che sfrutta tutte le potenzialità della tecnologia senza mai scadere in una supervalutazione dei mezzi e degli strumenti. Perché, nel suo caso, il medium non coincide mai col messaggio, ma il suo stile formale, cioè il suo linguaggio visivo, è un elemento essenziale del suo storytelling.
Ci sono due aspetti complementari nell’arte di Giovanni Motta, quello pittorico e disegnativo e quello plastico e scultoreo, che enucleano due diversi momenti della sua indagine: uno caotico, esplosivo e partecipe che si riflette nelle affollatissime composizioni delle sue tele e delle sue carte, dove il dinamismo dello slancio, dell’impeto e del turbinio dell’azione dominano il racconto; l’altro icastico, contemplativo, aurorale che emana dalle sculture di medie e grandi dimensioni che invitano lo spettatore a un confronto più intimo e meditato con le immagini. Sono i due tempi di uno stesso respiro, le aritmie di un unico battito cardiaco, le contrazioni e distensioni del medesimo muscolo creativo che variano il ritmo della narrazione.
I dipinti di Motta ci trascinano di getto al centro della storia, nel mezzo di un’azione che, con la forza centripeta di un ciclone, sconquassa luoghi, cose e persone. Il nostro occhio è forzato a immedesimarsi con gli eroi bambini e le loro schiere di mostri, ad adottare una visione in soggettiva degli eventi, quasi senza poter opporre resistenza. Diventiamo parte di quello sturm un drang emotivo, fatto di passioni e entusiasmi eroici che l’allegoria della lotta e del conflitto illustrano così sapientemente. Mentre guardiamo, siamo la furia rabbiosa in Lady, Lady, Lady, dove il bambino con la maschera da lupo lotta per liberarsi da tentacolari spire vegetali, oppure ci immedesimiamo con lo sconsiderato ardimento dei ragazzi che si gettano nella fossa delle tigri in Orphans; siamo il risoluto coraggio del guerriero che corre incontro alla battaglia in Thanks e in Everyone With Me, ma anche la concentrazione massima di un pensiero fluttuante, come il bambino di Wonder che brilla di quell’energia potenziale in procinto di esplodere in un atto risolutivo.
Tutte queste emozioni precipitano al centro delle tele di Giovanni Motta, magneticamente attratte da un fuoco prospettico che coincide, sempre, con l’immagine di Johnny Boy, il bambino allegorico, la metafora animata del vulcanico magma viscerale non solo dell’infanzia, ma di tutte le infanzie. Un espediente che l’artista usa per ricordarci quel che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare, se vogliamo ritornare a sentire la magia dell’esperienza vitale. Le sue storie hanno sempre del miracoloso e usano i registri dello straordinario, dell’eclatante e del sorprendente perché la vitalità e l’entusiasmo non conoscono limiti e restrizioni (e non osservano le regole del bon ton!).
Paradossalmente, nelle sue sculture, la capacità di coinvolgere lo sguardo diventa più sottile e persuasiva rispetto ai dipinti. Lo spettatore recupera il senso di unità soggettiva e percepisce l’oggetto tridimensionale, una delle numerose variazioni di Johnny Boy, come altro da sé, un corpo immobile nello spazio che gli consente un approccio apparentemente più analitico. I tempi di fruizione si allungano, la contemplazione si dilata e si fraziona. Nel muoversi attorno alla forma plastica, l’osservatore adotta molteplici punti di vista, non riesce, cioè, a risolvere la complessità delle forme di un oggetto solido così come risolve otticamente lo spazio illusorio di un’immagine dipinta. Motta conta su questa complessità per irretire l’osservatore in una trama più complessa, in un gioco che più quietamente innesca i meccanismi identificativi. L’immagine è fissa, statica, come una fotografia solidificata nella terza dimensione e il personaggio - uno solo questa volta - concentra su di sé tutte le possibili narrazioni. Lo storytelling, così evidente nei dipinti, si trasferisce ora alla mente dello spettatore. Johnny Boy è la porta d’ingresso dei suoi circuiti proiettivi, proprio come i simboli in pietra scolpiti sui portali delle chiese romaniche e gotiche. La funzione del simbolo è di riunire cose diverse, di mettere insieme pensieri, esperienze, sentimenti e significati contrastanti, di essere, appunto, come una porta che conduce a differenti luoghi o come una chiave che apre diverse porte. Johnny Boy, in tutte le sue numerose incarnazioni, non è mai il latore di un messaggio predefinito, ma l’interruttore che accende la pletora di ricordi e impressioni che riposano nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Il suo scopo è risvegliare qualcosa che credevamo sepolto nelle macerie della memoria non per crogiolarsi in un malinconico rimpianto, ma perché possa servirci ora ad affrontare il presente. La nostalgia, così come la intende Giovanni Motta, e come la intendo io, è uno strumento di conoscenza, un tool. Qualcosa che può addirittura assumere le sembianze di un QR Code che ci rimanda alla voce di un bambino mentre recita una poesia imparata a memoria, spalancando, così, dentro di noi un nuovo giacimento di emozioni dimenticate.
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QUANDO ERAVAMO PIÙ GIOVANI
di Ivan Quaroni
“Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta.”
(Giacomo Leopardi, Il fanciullino)
“Potete scegliere di cambiare e permettere ai miracoli di farsi avanti nella vostra vita.”
(Joe Vitale, Expect Miracles)
“La creatività non è periferico-dipendente”, sostiene Bruce Mau, un innovativo designer canadese impegnato nell’applicazione dei principi di progettazione ai più disparati campi della salute, dell’educazione e della sicurezza. Secondo Mau, infatti, per creare è necessario dimenticarsi della tecnologia, evitando i software che sono ormai a disposizione di tutti, e cercando di pensare con la propria testa. Uno dei più fatali errori in arte consiste nel confondere l’innovazione con la mera novità, ma è un errore che Giovanni Motta non ha mai fatto. La sua ricerca artistica si avvale della tecnologia in modo sensibile, peraltro senza mai prendere il sopravvento sull’aspetto creativo e fantastico o sul contenuto puramente artigianale del lavoro. La tecnologia è semplicemente uno strumento che abbrevia i tempi di realizzazione, ma non necessariamente quelli di progettazione, e che aiuta l’artista ad accorciare il percorso tra l’idea e il manufatto che la rappresenta. A Bruno Munari piacerebbe il modo con cui Giovanni Motta risolve i problemi connessi allo sviluppo di un pensiero e alla sua relativa concretizzazione fisica perché, sono certo, che il suo iter sia la messa in opera dei concetti e delle intuizioni che il famoso designer italiano ha fissato nelle pagine di Da cosa nasce cosa, il manuale di progettazione che tutti gli artisti dovrebbero conoscere.
Lo studio di Giovanni Motta somiglia a un laboratorio tecnologico perché per realizzare le sue sculture, l’artista si avvale di strumenti sofisticati, come scalpelli e stampanti 3D. Questo non significa, però, che l’intero processo sia automatizzato. Tutt’altro. L’artigianalità della modellazione in scultura, come pure l’acribia tecnica della miniatura (e della serigrafia) in campo pittorico sono quelli tradizionali. La sua è una ricerca profondamente umanistica, in cui la fusione di arte e tecnica conduce a risultati strabilianti, ma di cui, fatalmente, o forse fortunatamente, l’osservatore non può accorgersi. Qualcosa di simile accade nelle opere di Takashi Murakami o di Jeff Koons, in cui l’impatto iconico sovrasta, e anzi obnubila, i dettagli tecnici della produzione. In sostanza, la forma finale cancella l’iter e libera l’oggetto dai presupposti ideativi, concettuali e strutturali che presiedono alla sua creazione, per lasciar prevalere lo stupore e la meraviglia delle immagini, elementi chiave del suo modo d’intendere l’arte.
Tutto il lavoro di Giovanni Motta ruota, infatti, attorno alla natura prodigiosa dell’esistenza umana, alla qualità portentosa, e a tratti terrificante, della vita stessa, a quella particolare energia che nell’età adulta sembra opacizzarsi e depotenziarsi drasticamente, ma che è, invece, vivida e pulsante durante i periodi dell’infanzia e della pre-adolescenza.
Si tratta di un tema che vanta una pubblicistica sconfinata e che parte virtualmente dalle formulazioni mitologiche del puer aeternus e arriva fino alle recenti teorie sui Bambini Indaco. In mezzo c’è ovviamente gran parte della letteratura fantastica occidentale - dal Piccolo Principe di Saint-Exupéry all’Alice di Carroll e al Peter Pan di Barrie - ma anche dell’immensa produzione di manga e anime giapponesi, che ha praticamente ridefinito l’identità fisica e psicologica dell’infanzia nell’era post-atomica.
L’universo artistico e visivo di Giovanni Motta è, direttamente e indirettamente, suggestionato da questi riferimenti culturali, come si può evincere dalla fisionomia dei suoi mostri e dei suoi bambini, debitori dell’immaginario fantastico e avveniristico dei cartoni animati di Go Nagai e soprattutto dei film di Hayao Miyazaki. Eppure, non è il linguaggio formale dei manga il vero movente della sua ricerca, quello, per intenderci, che ha ampiamente plasmato il lavoro di tanti artisti contemporanei, non solo quelli orbitanti intorno alla Kaikai Kiki, la factory del fondatore del movimento Superflat, ma anche quelli che ingrossano le fila di alcune frange del cosiddetto Pop Surrealism americano.
Come la tecnologia, anche il linguaggio scelto dall’artista veronese è soprattutto uno strumento, un pretesto espressivo, per indagare a fondo (e in maniera comprensibile a tutti) il miracolo dell’innocenza e il suo carattere potenzialmente esplosivo. Ecco perché l’iconografia dei suoi dipinti e delle sue sculture pullula di mostri e chimere, esseri deformi e creature ibride che incarnano aspetti inquietanti oppure straordinari dell’esperienza infantile.
Giovanni Motta è interessato al recupero di stati emozionali, di attimi che si fissano nella memoria in forma di ricordi indelebili soprattutto nell’infanzia e nella pubertà, quando anche i più piccoli accadimenti sono vissuti con una grande intensità. Il mostro diventa allora la trascrizione visiva e immaginifica di una magia emozionale, di un picco energetico nel diagramma dei sentimenti quotidiani. La parola monstrum in latino indica il manifestarsi di un portento che sovverte l’ordine naturale delle cose. Secondo gli antichi, il mostro aveva anche il valore di un avvertimento, di un monito divino. Prodigiosa invece, per l’artista, è piuttosto la possibilità di plasmare un ricordo, di dargli corpo e sostanza in una forma eloquente, che è poi quello che fanno i bambini quando disegnano le proprie emozioni.
Non è un caso che i capostipiti dei tanti mostri di Giovanni Motta, Blue Julian e Red Atomic, siano nati dalla fantasia dei suoi figli, in foggia di piccole statuette di pongo. Questo aneddoto chiarisce come spesso le sue opere nascano da un rapporto stringente tra immaginazione e realtà. E, infatti, ogni scultura è, in qualche modo, collegata a un episodio presente o passato, a un ricordo che l’artista traduce nella grammatica allegorica e metaforica della creta modellata e della resina stratificata con la tecnologia della stampa 3D.
Presi tutti insieme, come ad esempio nell’installazione One Hundred Small Players, i suoi luccicanti e levigatissimi mostri compongono un esercito silente e variegato di memorie, un campionario che sviscera le casistiche emozionali dell’infanzia alla maniera di un bestiario fantastico e futuribile. Non ci sono repliche: i mostri sono tutti diversi. Ognuno di essi allude a una storia cui possiamo risalire solo decifrandone gli attributi specifici (corna, spine, tentacoli, guanti di gomma e cuori pulsanti) come fossero indizi di una memoria labile e imprecisa, che l’immaginazione beffarda ricompone a suo piacimento. Sono animelle dai contorni mobili con una fisionomia instabile, approssimativa e incompleta come quella dei fantasmi e dei poltergeist. Non somigliano ai graziosi mostriciattoli che i giapponesi includono nell’estetica kawaii, il tipo di cuteness che caratterizza celebri personaggi come Hello Kitty o Miffy, dai tratti nitidi, lineari, facilmente riproducibili e che servono a suscitare sentimenti di tenerezza.
I mostri di Motta non sono cuccioli, sono prodigi, solidificazioni di una magia potente e magmatica, per natura destabilizzante. Perfino nei dipinti, eseguiti con una tecnica che sfiora la perfezione della stampa digitale, i suoi mostri sembrano formare una marea ribollente e caotica, che somiglia solo superficialmente a un pattern grafico.
Dentro ogni quadro, per quanto possa apparire simile a una texture dai colori intensi e vibranti, questi esseri fluttuano trascinati da un’invisibile corrente, irresistibile e violenta quanto le spirali di un maelstrom.
“L’infanzia è un incubo”, scriveva Sheldon Kopp, ma la sua era ovviamente la prospettiva dello psicanalista alle prese con le conseguenze dei danni provocati dagli adulti sulla psiche dei bambini, quegli stessi che, a distanza di anni, sarebbero diventati suoi pazienti.
Eppure, l’esperienza del trauma è intimamente connessa all’infanzia, a prescindere dal contributo degli adulti. Quando non è di tipo fisico e organico, il trauma si riferisce all’irrompere di un’emozione improvvisa e violenta, capace di provocare un’alterazione nell’attività psichica. Si tratta, quindi, di un evento inevitabile nel processo di crescita di ognuno. Giovanni Motta ha intuito la similitudine tra il traumatico e il mostruoso e ne ha fatto l’oggetto della sua ricerca individuando, nell’arco temporale tra i sette e i dodici anni di vita, il periodo di massima turbolenza emotiva.
La sua prospettiva è, però, quella del bambino, o meglio del fanciullo interiore, che incarna l’unica possibilità di riscatto per l’uomo. Per Giacomo Leopardi era una voce nascosta nel profondo di ogni individuo, un impulso che sfugge ai sensi e alla ragione, ma è capace di entrare in contatto col mondo attraverso l’immaginazione. Per Giovanni Motta è, invece, la facoltà di recuperare il senso magico dell’esistenza, di riallinearsi con le forze primigenie e soprannaturali che producono ogni vera esperienza vitale.
Tra i lavori dell’artista ci sono immagini che esprimono emblematicamente questa facoltà come, ad esempio, How to Capture the Essence in an Afternoon Sleep, un dipinto che rappresenta un bambino addormentato, mentre precipita, metaforicamente, nel vuoto pneumatico di un sogno popolato di mostri, epifenomeni, ancora una volta, di chissà quali oscuri tripudi e segreti palpiti dell’anima. Quello che colpisce, però, in questo dipinto così come nel trittico plastico in cui compare il medesimo bambino, è l’innocenza stessa, quella disarmante purezza di spirito che è forse la più alta forma di energia e di potere dell’universo. Qualcosa che ci fa pensare a quando eravamo più giovani, al modo in cui tutto ci sembrava più vivido, e che ora avvertiamo come una nostalgica, salvifica tensione verso la miracolosa autenticità dell’infanzia.